La sofferenza, se vissuta senza alcuna rabbia, è un’offerta
a Dio, e visto che siamo lampade, è come se fosse l’olio che brucia dentro di
noi e produce luce. La luce della lampada si effonde più o meno a seconda dello
stato del vetro: più esso è pulito, più la lampada è efficace e luminosa.
Il vetro, che nel mio caso si presenta opaco, è il corpo con
la sua parte terrena e i suoi bisogni umani. Meno spago si dà a questi ultimi e
più inconsistente ed etereo si fa il vetro. Dove dare “meno spago” non significa
certo lasciarsi morire di fame, ma lasciare che scendano le punte troppo alte
delle passioni terrene: la golosità, l’egoismo, la sensualità.
Qualsiasi sofferenza diviene sempre luce: brucia lentamente
la materia trasformandola in luce per coloro che ci passano accanto. Per
l’esattezza la sofferenza non sarebbe proprio l’olio, ma la miccia che accende
l’olio. In ogni modo va a corrodersi la mia umanità e fa trasparire luce che
illumina il cammino degli altri.
Con un particolare interessante: la luce che proviene da me
non fa luce al mio cammino forse perché la lampada ha il punto più buio proprio
sotto di sé. Questo probabilmente spiega perché chi soffre, non vede chiaro
sulla sua strada e non gli sembra di procedere sulla via della santità.
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